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(Finanza e Mercati) TRA SPENDING REVIEW E NUOVO CONCETTO DELLA "CREAZIONE DI VALORE" di N.Ruocco 03/06/2012
In questi giorni davvero tanto si sente parlare dell'acronimo "spending review", che tecnicamente nient'altro significa se non "taglio, o revisione di spesa". Come una sorta di bandiera a mò di slogan da issare quanto più alta possibile, il Governo Monti sta cercando di definire proprio in queste ultime ore le peculiarità attuative di questo intervento, attraverso il quale ci si pone l'obiettivo di una analisi dei Capitolati di spesa nei vari Ministeri, individuando quei settori o voci meritevoli di un taglio in quanto passabili come fonti di spreco di pubblico danaro. La cosa però che desta quanto meno una certa perplessità è che, inglesismi in disparte, già precedenti esecutivi sono intervenuti con manovre di tagli sulla spesa pubblica (cd. tagli lineari, o particolari). La questione è pertanto di merito. Fermo restando gli oggettivi sprechi che lo Stato attua ancora oggi - che però attengono a tutt'altri soggetti e funzioni statali, come ad esempio gli Enti Locali tra cui le Province e Regioni - basta tagliare la spesa pubblica con il rischio di intervenire in settori pubblici strategici con la conseguenza di determinare magari gap negativi di servizi espletati? Lascio a voi la risposta. Un interventismo molto marcato sulla spesa pubblica rischia di favorire ulteriormente la macchina del disagio nella pubblica amministrazione, un disagio che si esplica all'atto pratico nella quotidiana mancanza di strutture adeguate per la scuola, in tribunali in cui manca la carta da bollo, o in una sanità non ingrado di abbattere le lunghissime liste di attesa. Senza enfatizzare tuttavia la questione sociale e morale che sta dietro a questa problematica, è mia ferma convinzione che lo Stato, in un'ottica riformistica, non può e non deve esclusivamente attuare una politica di rigore. Anche perchè poi siamo davvero certi che il ricavato del taglio di spesa servirà ad abbassare le tasse? Non dimentichiamoci che l'Italia oggi naviga su una posizione di rapporto Debito Pubblico / PIL che si attesta, soglia record dal 1996 ad oggi, del 120%. Il nostro debito pubblico non è però il debito incombente come quello della Spagna, o del Portogallo, oppure come quello che ha portato in default finanziario la Grecia. L' Italia, a differenza forse di altre nazioni d'Europa, detiene delle potenzialità d'impresa, degli eccezionali knowhow che certo non sono delieabili o quantificabili nella loro bontà dal semplice indicatore del prodotto interno lordo. "Il semplice Pil non è più sufficiente per rappresentare il livello di ‘ricchezza’ di una nazione,” spiega il Prof. Francesco Perrini, direttore del centro ricerche economiche della Bocconi ed autore dello studio Sustainable value creation: from a country to a corporate perspective, Egea Editore, Milano, 2012, “Bisogna spostarsi da un approccio prettamente economico come quello dettato dal Pil verso una prospettiva sostenibile basata sullo sviluppo umano e sociale, che non è sempre esprimibile solo in termini monetari.” Sono parole illuminanti quelle del Prof. Perrini, che attengono decisamente anche al discorso che stavamo affrontando. Ma come possiamo risolvere questo periodo di sistemica crisi economica? Attraverso una reperimetrazione più funzionale del concetto di valore. L'economia della restrizione, che è la risposta quasi fisiologicamente immediata che il mercato ed anche lo Stato attuano - la si può gradualmente sostiuire con una politica economica incentrata sulla creazione di un rinnovato valore d'impresa che sfoci di riflesso in tutti i settori ad essa collegata. Una chiave di volta caratterizzata dalla possibilità di perseguire un approccio basato su una nuova concezione di valore e ricchezza in doppia ottica, a livello aziendale e anche a livello di sistema paese. Un impulso in tale ottica può ad esempio essere determinato dalla Responsabilità sociale d'Impresa (CSR - si legga un mio precedente intervento qui ) autentico volano di sviluppo economico-strutturale del breve termine. E' comunque vero che la crisi economica fa si che lo Stato e gli investitori in generale preferiscano una visione quantistica del valore nel breve termine, attivandosi in termini di cash flow in scelte di taglio dei costi. Ma è altrettanto significativo come la crisi non la si possa superare guardandola nel suo insieme e nei suoi effetti di breve termine. Occorre che lo Stato attui scelte di politica economica volte alla valorizzazione dell'impresa in quanto soggetto economico attivo, da sostenere, capace attraverso i suoi konowhow di esprire un rinnovato valore. Le imprese hanno bisogno non di tassazione, o di servizi dell'apparato pubblico ridotti nel tempo di risposta evasiva a causa dei tagli, ma necessitano come detto di strategie innovative di medio termine improntate sulla loro responsabilità sociale. La conseguenza diretta sarà un beneficio trasmissibile direttamente nel mercato del lavoro, con una rinnovata competitività ed una ritrovata richiesta di prodotti o servizi. La strada è sicuramente difficile ed in netta salita; ma cerchiamo almeno di intravederla spostandoci dalle "solite" posizioni di opprimente interventismo. N. Ruocco
(Finanza e Mercati) ART. 62 DL LIBERALIZZAZIONI: QUANDO UNA LIBERALIZZAZIONE DIVENTA NELLA SOSTANZA "ILLIBERALE" di N.Ruocco 13/05/2012
L'articolo 62 del Decreto Legge n.1 del 2012, convertito in legge ordinaria n.27 del 24 marzo 2012 ha aperto in questi giorni un profondo dibattito tra gli operatori del mercato, in particolar modo tra i soggetti appartenenti al settore agroalimentare, diretti destinatari del nuovo disposto normativo del cd. Decreto Liberalizzazioni. La nuova disciplina va infatti ad introdurre, nell'ambito del rapporto contrattualistico cliente/fornitore, dei termini inderogabili del pagamento (30giorni per i prodotti agricoli, 60giorni per i prodotti alimentari), prevedendo tra le altre cose degli interessi di mora applicabili in via automatica. Questa riforma, fortemente voluta dal Ministro delle Politiche Agricole e Forestali Mario Catania, ha sollevato tuttavia profonde polemiche in particolar modo nel settore della GD (Grande Distribuzione) tra i maggiori soggetti economici attivi ed acquirenti dell'agroalimentare italiana. In linea di principio, se la riforma attivata dall'introduzione dell'art. 62 si poneva l'obiettivo di garantire un più equo rapporto di compravendita tra i soggetti del settore, lo ha fatto però intervenendo conuna evidente peculiarità ostativa e da crismi di inderogabilità. Da più parti si sono invero elevati cori di positività verso questa prospettiva, come opportunità di tutela della piccola e medio impresa, quali soggetti tendenzialmente più deboli della catena di fornitura; ma così impostata la riforma, lascia trasparire, soprattutto in un periodo di ingessatura di liquidità come questo, oggettive difficoltà per i retailers. La norma è si vero tendente a combattere le lungaggini nella tempistica dei pagamenti in un settore come quello dell'agroalimentare che è di sistemica importanza nel mercato italiano, ma ostacola a mio avviso uno degli aspetti che lo stesso principio di liberalizzazione dovrebbe tutelare, vale a dire la libera contrattazione tra le parti nelle compravendite del mercato. Quest'aspetto è ancor più penalizzato se si considera l'introduzione, come accennato, dei termini tassativi e successivi interessi di mora. L'argomentazione potrebbe altresì essere spostata sul piano della legittimità costituzionale, seguendo il disposto generale dell'art.41 Cost. secondo il qualel'iniziativa economica privata è libera, libertà che in quanto tale deve essere costituzionalmente garantita. Qualche tentativo di modifica del testo è stato invero adoperato. Un profondo dibattito è intercorso in sede di conversione in legge in Parlamento: in ultima istanza al Senato è stato approvato un emendamento per il quale il termine perentorio è stato spostato dalla data di fattura all'ultimo giorno del mese di emissione della stessa. E' cambiato poco però, se non nulla. Nel complesso, siamo a mio avviso dinanzi ad una novità legislativa che lascia trasparire nella sostanza tutt'altro che volontà di liberalizzare. L'aspetto dei pagamenti in un rapporto di fornitura è in Italia un problema sociale ed economico che necessità anzitutto di un cambio culturale per il quale forse la classe imprenditoriale, o meglio il sistema impresa in Italia, non è ancora pronto. La libertà della contrattazione tra soggetto acquirente e soggetto fornitore non deve essere vincolata a condizioni di imposizione temporale, poichè questo può essere un aspetto che tecnicamente incide poi, a mò di boomerang, nella bontà dell'acquisto stesso, nel suo aspetto del pricing, e di riflesso, potrebbe determinare un aumento dei costi da sostenere per il consumatore finale, ergo perdita del potere di acquisto. Resta comunque beninteso la positiva volontà del legislatore nel delineare un nuovo strumento per una più funzionalegestione del credito per l'impresa, poichè sono davvero tante le imprese oggi in Italia che sono costrette a compiere investimenti e dispiegare risorse umane nel controllare la solvibilità del suo portafoglio di crediti. Una proposta: perchè il Governo non interviene invece con una norma che disciplina i termini di pagamento della Pubblica Amministrazione ? N.Ruocco
(Marketing) IL FUTURO IMMEDIATO DEL MARKETING COMUNICATIVO VERRA' DAL...PASSATO! di N.Ruocco 29/04/2012
a breve
(Marketing) LA RESPONSABILITA' SOCIALE D'IMPRESA DA NORMA ETICA AD INTERESSANTE LEVA DI MARKETING STRUTTURALE di N. Ruocco 04/03/2012
Il pianeta Impresa è ormai in continua e sistemica evoluzione, e ciò che sembrava quasi una sorta di utopia sino a qualche anno fa, oggi rappresenta invece una realtà di fatto con la quale gli operatori di mercato ed i soggetti decisionali sono chiamati costantemente a confrontarsi. Temi come lo sviluppo sostenibile oppure l'impatto sociale di un soggetto economico sulla realtà territoriale dove insiste erano sino a poco fa argomenti di mera discussione teorica tra gli operatori, e non incidevano a dir vero più di tanto nelle scelte decisionali. Una recente delibera della Commissione Europea, la 681/2011 "A renewed EU strategy for Corporate Social Responsability" ha tracciato un solco di cambiamento importante riperimetrando al sistema Impresa europeo un nuovo rilievo del CSR, appunto Corporate Social Responsability, responsabilità sociale d'impresa. In opportuna brevità, con il detto provvedimento l'Unione Europea ha posto l'accento sulla necessità per il soggetto Impresa di dotarsi di un vero e proprio processo interno atto ad integrare le problematiche relative a società, ambiente, etica, diritti umani e consumatori nelle loro operazioni e strategia, in stretta collaborazione con gli stakeholders, con l’obiettivo di massimizzare la creazione di valore condiviso per proprietà e società, di identificare/prevenire/mitigare i possibili impatti negativi. Un accadimento di notevole importanza, che subito ha ottenuto immediati riflessi nel mondo dell'impresa. Sul piano tecnico-economico, occorre premettere, che la Responsabilità Sociale d'Impresa si sviluppa comunque in un contesto culturale ed accademico particolare, in cui si chiede ad un'impresa, tra l'altro in un momento di congiuntura economica tutt'altro che facile, di adottare un comportamento socialmente responsabile, monitorando e rispondendo alle aspettative economiche, ambientali, sociali di tutti i portatori di interesse con l'obiettivo di cogliere anche un vantaggio competitivo e massimizzare gli utili di lungo periodo. Teorie e tecnicismi in disparte, poichè ci sarebbe da discutere anche sulla legittimità dei nuovi standard certificativi funzionalmente creati quali l'SA8000 e l'AA1000, l'Impresa si ritrova oggi dinanzi lo spettro di un nuovo fattore nel suo processing decisionale, e quello che poteva sembrare inizialmente una sorta di nuova imposizione, considerato anche il fatto che lo stesso Ministero del Lavoro intende a breve regolamentare con apposite norme la nuova disciplina del CSR, si è tuttavia evoluto in una sorta, se ben sfruttata in chiave strategica, di importante opportunità di marketing. Proprio di recente si è tenuto un interessante convegno promosso da Acea spa dal main theme "Normativa, responsabilità sociale d’impresa ed eccellenza: la formula vincente del safety management”. Ebbene si; una riformulazione in chiave vigenza sistemica del CSR, determina una nuova e positiva coscienza per l'impatto sociale e ambientale del fare impresa, configurando una nuova etica della stessa, ma al tempo stesso una importante e strategica opportunità comunicativa (quindi di marketing). E da qui la formulazione del termine safety management. Sono oggi in tante, ma davvero tante, le imprese che investono in questo tipo di comunicazione: dal rilievo dell'utilizzo di energia da fonti rinnovabili, all'invoglio e responsabilizzazione per la raccolta differenziata, tanto per citare qualche esempio. E numerose sono invero le argomentazioni su cui fare leva. I risultanti di una simile scelta comunicativa, sono immediati sia dal punto di vista tecnico-teorico (in quanto si cerca di corrispondere alle direttive del CSR) sia dal punto di vista della percezione etico-sociale di mercato. I consumatori finali, immediatamente dopo al fattore del pricing, sono infatti straordinariamente attenti ad argomenti di interesse sociale, ed anche gli stessi media, che sono un pò come il cuore pulsante delle nostre percezioni sociali, sembrano sempre più spingere in questa direzione. All'atto meramente pratico, basta visitare un pò di siti web oppure fare un giro tra gli scaffali di qualche negozio, per rendersi conto in prima persona quante siano le realtà produttive che investono oggi in questo tipo di comunicazione. Ma la cosa, a mio avviso, ancor più importante, è che le leve e gli strumenti di un simile planning di marketing sono ancora tante ed ancor più incisive: da nuovi strumenti di B to C a nuovi meccanismi di interazione qualitativa e quantitativa. L'aspetto tuttavia dell'incisività è da prendere con le dovute attenzioni: da fattore positivo infatti può quasi fisiologicamente configurarsi come aspetto negativo. L'unica mia preoccupazione è appunto quella della eccessiva incisività, direi quasi a carattere di massa, che leve di marketing in materia di responsabilità sociale possono determinare. Alcuni già oggi fanno rilevare come si spinga nella direzione di una aggressiva induzione all'acquisto, una induzione che può creare un serio danno nel rapporto impresa-cliente, e nella giusta percezione qualitativa del prodotto. Nel complesso, quest'aspetto è si vero, ma allo stato attuale, pur non negandone l'esistenza, credo assumi più un rilievo patologicamente ipotetico, che un evento condiviso e fattuale. Quello che invece può essere un fattore con crismi di negatività è l'aspetto invece dell'incidenza di tale marketing sul prezzo finale del bene o servizio prodotto; e sotto quest'aspetto occorre premura da parte del consumatore finale. In definitiva la Responsabilità Sociale d'Impresa, oggi rappresenta per gli operatori uno strumento importante volto a sensibilizzare, in chiave etica, il rapporto impresa-cliente con l'obiettivo di fidelizzare quest'ultimo. E' la fidelizzazione credo l'obiettivo a cui maggiormente può pervenire un marketing consapevole indirizzato a questa argomentazione. Come ogni scelta decisionale però, occorre equità, poichè un uso sconsiderato di questa nuova tecnica di marketing può configurarsi per l'impresa come una sorta di boomerag. La parola chiave deve essere, non solo come tema, ma anche come modus operandi: responsabilità. Il 30 e 31 maggio prossimi intanto, l'Università Bocconi di Milano promuoverà intanto il primo Salone della Responsabilità Sociale d'Impresa, con un bouquet di eventi particolarmente interessante. Staremo a vedere. (N. Ruocco)
(Diritto Costituzionale) RIFLESSIONI SULLA COSTITUZIONALITA' DEL REGIONALISMO DIFFERENZIATO di N.Ruocco (19/12/2010)
Recenti spinte politiche verso riforme istituzionali improntate nella direzione di un sistema federalistico delle nostre Regioni, non possono che attirare l'attenzione sul fenomeno del regionalismo differenziato, e in particolar modo, sul suo aspetto di mera costituzionalità. Va premesso che il concetto di differenziazione del sistema regionalistico si configura, nella dottrina di diritto costituzionale, in due fattispecie necessariamente distinguibili: la prima riguardante il regionalismo differenziato in relazione alle Regioni a statuto speciale presenti nel nostro ordinamento, riconosciute dalla nostra stessa carta costituzionale secondo il disposto di cui I comma art.116 Cost.; la seconda fattispecie è quella per la quale la differenziazione assume un suo aspetto previsionalmente evolutivo da ravvedersi nel disposto "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia" di cui III comma art.116 Cost. Tralasciando la prima fattispecie che ha invero un rilievo tecnico-sociologico relativo alla necessità di tutela delle diversità etniche e geopolitiche presenti nelle Regioni a statuto speciale, porgiamo la nostra attenzione sulla differenziazione così come secondariamente intesa e proposta. Prima di addentrarci tuttavia in quello che è il cuore discorsivo del tema, da un punto di vista strettamente storico-istituzionale, occorre premettere che l'ordinamento-apparato italiano, pur con i diversi e fisiologici mutamenti normativi, si è sempre caratterizzato per un regionalismo cd. dell'uniformità, laddove tra le Regioni, in quanto enti locali, e lo Stato centrale, si è sempre sostanziata come condizione basilare e precostituita quella della leale cooperazione e sussidiarietà amministrativa (invito in tal senso alla lettura dell'interessante testo L. ANTONINI, Il regionalismo differenziato, Giuffrè, Milano, 2000). Ma come già anticipato in apertura, recenti disegni modificativi di tale assetto sembrano aprire scenari ad oggi poco conosciuti e per i quali ci si interroga circa il loro rilievo di costituzionalità. In dottrina e nella giurisprudenza della stessa Corte costituzionale è opinione oggettivamente diffusa quella tendente a sottolineare il principio dell'unità politica della Repubblica che costituisce, secondo l'art.5 Cost., il limite generale - e sostanziale - delle autonomie locali. L'aspetto differenziale del sistema regionalistico infatti, trova a mio avviso il suo regime di legittimità costituzionale in termini di equilibro tra le competenze regionali legittimamente riconosciute in via esclusiva, concorrente o residuale ed i limiti previsti per le stesse competenze, in un'ipotesi, come detto, di una differenziazione più marcata; più propriamente, qualora i limiti alle potestà legislative regionali risultassero disequilibrati, le medesimi potestà, differenziandosi dal loro status di ordinarietà, rischierebbero di increspare gli equilibri, invadere competenze e pregiudicare rapporti giuridici. Entrando ancor più nello specifico, e fermo restando ad oggi i "paletti" sanciti dall'art.117 Cost. con riguardo delle competenze esclusive dello Stato, quelle concorrenziali o dipartite Stato-Regione, ed infine quelle di mera risulta regionale, ciò che maggiormente si presta a forme di diversificazione nel nostro sistema regionalistico è soprattutto l'aspetto della fiscalità. Da più parti infatti sentiamo parlare, non vanamente, di riforme nel senso di un "federalismo fiscale"; proposte di riforma che trovano invero loro spettro di legittimità costituzionale nel nuovo art.119 Cost., definito dai maggiori costituzionalisti, un testo normativo "a maglie larghe", poichè "attraverso una interpretazione estensiva si consentirebbe al legislatore ampio spazio nell'individuazione di modalità specifiche di realizzazione del federalismo fiscale, aspetto tra i più dominanti in uno scenario di regionalismo differenziato", come afferma il costituzionalista Prof. Roberto Bin. Ma da contr'altare, tengo ad evidenziare come la stessa Corte costituzionale ha sciolto alcuni dubbi. Anzitutto, con la sentenza n. 37/2004, la Corte ha evidenziato la non ammissibilità, in materia tributaria, di una piena esplicazione delle potestà regionali senza previa legge statale di coordinamento, la cui assenza, preclude alla Regioni di legiferare in modo innovativo. Ed ancora, la sentenza n. 4/2004 lascia emergere come "l'armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica" siano di competenza concorrente tra la Stato e gli enti locali. Provando a riassumere, se da un lato il disposto del III comma art.116 Cost. apre possibili scenari di maggiore autonomismo regionale, che si traduce nei fatti in una ipotesi di differenziazione, e la differenziazione, riprendendo l'art.119 Cost., pare trovare suo quasi naturale sbocco in materia fiscale, dall'altro non possiamo comunque omettere la presenza allo stato attuale di limiti di controllo di legittimità, sulle competenze, e sulle procedure da parte dello Stato rispetto alle medesime Regioni. La costituzionalità del regionalismo differenziato in definitiva trova sua esplicazione oggettiva nel massimale rispetto, in una ipotesi attuativa di un federalismo differenziale, degli inderogabili limiti costituzionali ed ex lege imposti alle Regioni (tralasciando in questa sede la diversa specificità di limitazioni), autentici contrappesi delle istante autonomistiche degli enti locali. D'altra parte resta tuttavia innegabile l'evoluzione in senso autonomistico delle nostre Regioni, nelle mutazioni normative dalla lg. 2/1953, alla 281/1970 sino a giungere alle recenti leggi di revisione costituzionale del Titolo V n. 1/1999 e 3/2001. Una maggiore autonomia degli enti locali, fermo restando il principio dell'unità politica ed istituzionale del nostro ordinamento, può rappresentare comunque una evoluzione istituzionale fisiologicamente positiva, qualora però, un suo mutamento in senso differenziale tra le varie Regioni italiane, non determini un assetto federale forte e marcato, col rischio che la differenza istituzionale e amministrativa si trasformi in divari socio-economici ahinoi già marcatamente e patologicamente presenti nella società italiana. (N. Ruocco)
LA PASTA DI GRAGNANO TRA PROMOZIONE MATERIALE E LE NUOVE - E NECESSARIE - FRONTIERE DI WEB MARKETING di N.Ruocco (26/09/2010)
Per la Pasta di Gragnano tanto si è fatto, e tanto si sta cercando di fare. Ad iniziare dalle manifestazioni annuali sulla Pasta di Gragnano, divenute dal 2000 in poi (con l'Amm. Serrapica) non solo main event della città, ma anche appuntamenti di rilievo internazionale; per proseguire poi alla costituzione di un Consorzio di tutela nel 2003; ed ancora partecipazioni fieristiche di settore in Italia e all'estero, convegni, procedura di riconoscimento IGP, ecc. Insomma, fino ad oggi tutti gli operatori gragnanesi e diretti interessati hanno cercato di operare al meglio nella giusta direzione tesa evidentemente a promuovere sempre più la Pasta di Gragnano quale riconosciuto prodotto di eccellenza. Tutti naturalmente accomunati dall'obiettivo condiviso di determinare una posizione del prodotto quale leader di mercato. Tuttavia, la fierezza e consapevolezza dei pastai gragnanesi nel realizzare questo prodotto di qualità, le conoscenze e tecnologie produttive impiegate, le antiche tradizioni frutto di trecento anni di storia, assieme a tutte le attività promozionali sin qui materialmente realizzate, possono bastare oggigiorno a garantire la leadership della Pasta di Gragnano nel mercato globale che dimostra essere sempre più concorrenziale e austero di richieste? Sino a qualche anno fa la risposta a questa domanda sarebbe stata certamente un si, ma ora forse la stessa risposta non è così certa e scontata. Questo perchè oggi più che mai occorre fare i conti con un parametro riconducibile ad una nuova platform di mercato, apparentemente astratta ma oggettivamente funzionale ed incidente: quella dal web. Sono infatti sempre di più le aziende, anche se titolari di un prodotto di indiscussa eccellenza, che ciononostante pianificano e sviluppano nuovi e ottimizzati canali commerciali su internet attraverso strumenti che ormai le tecnologie garantiscono tra i più efficienti e convenienti. Tanto premesso, alcuni giorni fa provai a fare, a titolo di curiosità, uno screening statistico relativo ai risultati di ricerca sul web (interesse implicito) della "Pasta di Gragnano" da parte di utenti che, ricercando appunto su internet questo prodotto, manifestano evidentemente un loro interesse ad ottenere informazioni sullo stesso. E i risultati sono stati molto interessanti. Attraverso l'ausilio di Google Statistics AdWords (come dimostra la tabella N.1 in alto) emerge come i termini "Pasta Gragnano" o "Pasta di Gragnano" sono ricercati dagli utenti i primi per una media di 2900 contatti mensili, i secondi per invece una media di 1300; andando a sommare, ne suvviene che gli utenti che ricercano notizie o informazioni o contatti per la nostra pasta sono in media 4200 mensili, 50mila annuali. Il dato sin qui potrebbe apparire abbastanza positivo anche se non ai vertici per il settore della merceologia alimentare. Andando comunque ad analizzare meglio le cifre, emerge che il grosso del volume di ricerca di informazioni su internet sulla Pasta di Gragnano è pressappoco di livello locale (Google Statistics per locale intende la suddivisione provinciale), mentre gli utenti che sono interessati al prodotto, ma non di Napoli, sono meno di 1/4 del totale (4200 totale mensile, ricerche locali 3400, ricerche non locali solo 800 mensili). Per essere una buona cosa, il rapporto dovrebbe invero corrispondere all'esatto contrario, considerato comunque, in opportuna brevità, anche il parametro di incidenza merceologica concorrenziale che le stesse statistiche di Google quantificano tra il 35 e 45%. Ma questo è un altro aspetto. Sul piano concreto quest'analisi si traduce in una presenza sul web delle aziende e operatori della pastificazione gragnanese forse frutto più di una formale opportuntità d'immagine fine a se stessa, che di una pianificata strategia comunicativa o di marketing partecipativo. Ne abbiamo ad esempio, che, se proviamo a ricercare in qualsiasi motore di ricerca sul web la parola "pasta", di pastifici di Gragnano che in questo settore rappresentano chiaramente l'eccellenza produttiva, (eccezion fatta per il Past. Garofalo che forse è l'unico che sta operando in questa direzione) non si ha presenza nei primi cento risultati di ricerca. Se invece proviamo a ricercare esplicitamente "pasta di gragnano" succede addirittura il paradosso che tra i primi risultati compaiono indicizzate aziende o società commerciali che vendono pasta di Gragnano ma che di Gragnano non sono affatto (foto seguente).
Come già sommariamente anticipato, oggi esistono diverse tecniche di web marketing con le quali si può promuovere in maniera ottimale un'azienda e i suoi prodotti, aprendosi contestualmente ad un spettro di potenziali clienti, in un mercato quello di internet che di qui a pochi anni, gli stessi analisti economici tendono a definire come "potenzialmente e dinamicamente predominante" rispetto a quello reale. Per farla breve, la pasta di Gragnano deve essere anche in rete promossa e definita come prodotto toplevel, un autentico prodotto di eccellenza quale riconosciuto nella sua concreta quotidianità. E per far si, occorre che le aziende produttrici si affaccino sul mondo del web anzitutto con uno styling nuovo e rinnovato; strumenti di meta tagging attivi e funzionali nei loro siti, in modo da essere indicizzati al meglio nei risultati di ricerca e magari anche attraverso strumenti di indicizzazione primaria quale Google Adsense e Adwords; coinvolgere e interagire con i social network, blogging e canali streaming video attivando così un marketing partecipativo a finalità fidelizzativa; attivare un sales office predominate, tanto da offrire la possibilità della vendita di pasta gragnanese a tutti i più rilevanti soggetti commerciali; e infine, e non ultimo per importanza, ricorrere a quello che ritengo uno degli strumenti di maggior potenziale: l'e-commerce. A chi non mastica molta informatica, tutto quanto sopra indicato potrebbe apparire pura astrazione o consigli tecnici che nulla hanno a che vedere col rilievo storico, economico e socio-culturale rappresentato dalla pastificazione a Gragnano. Lungi da questo. E ne offro una prova. L'utente che interagisce su internet è mediamente una persona attenta, che magari se intenzionato ad acquistare, ricerca la qualità al giusto prezzo e con i migliori servizi di tracking e supporto. Di riflesso, sul piano concretamente comunicativo, un eventuale evento o attività promozionale ha conseguenzialmente una sua sfera di incidenza sulla manifestazione d'interesse per gli utenti sul web. Come dimostra l'immagine in basso (tabella n.2) negli ultimi 5 anni la curva di andamento dell'interesse sul web per la pasta di Gragnano, vede dei punti di sommità annuali proprio in cadenza con la festa in settembre, e questo comprova che l'inter-relazione tra mercato e promozione reale e quello della rete è tutt'altro che trascurabile. In definitiva, rimettendo magari a successivo scritto maggiori approfondimenti e consigli tecnici, l'eccellenza di un prodotto è tale se a prescindere del suo valore intrinseco, viene sensibilmente percepita dai consumers (soggetti destinatari), attraverso un messaggio comunicativo che non può non "affacciarsi" sul mondo ormai instrascurabile del web. Se la pasta di Gragnano anche su internet viene opportunamente valorizzata attraverso le nuove tecnologie e strumenti oggi disponibili, i benefici sono esponenzialmente rimarcabili sia dal punto di vista dei potenziali clienti, sia meramente come immagine. Ecco quindi che il rapporto prima descritto tra interesse locale e quello extralocale su internet per la nostra pasta può sovvertirsi, dando vita a scenari floridi e vincenti. Personale e sincero auspicio, sperando che la mia non rimanga una vox singularis. (N. Ruocco)
(Diritto Costituzionale) IL PROBLEMA POCO DISCUSSO DELLA SINDACABILITA' DEGLI INTERNA CORPORIS ACTA PARLAMENTARI di N.Ruocco (20/08/2010)
Il noto giurista Santi Romano, riguardo il tema degli interna corporis acta parlamentari, tuonava con decisione in un suo testo (S. Romano, “Gli atti del Parlamento e la loro pretesa impugnabilità”, Milano, 1950, pag. 149 ndr.) definendoli “un caos indistinto e ancora male analizzato dall’indagine scientifica”. Parole forti, che comprovano una sorta di ambiguità del tema; non solo forse poco trattato, ma di rilievo tutt’altro che manualistico o di sola dottrina costituzionale. Gli interna corporis infatti sono – in opportuna brevità – l’insieme di tutti gli atti, procedure e attività compiuti in seno al Parlamento in relazione all’esercizio delle sue funzioni camerali. Un insieme quindi di accadimenti e procedimenti che sovente fanno da sfondo alla ribalta politico-istituzionale, ancor più in scenari politici instabili o poco chiari. A tal proposito la problematica che si evidenzia da più parti è quella relativa alla sindacabilità di questi atti e procedure interne, nella direzione cioè di un loro controllo da parte di eventuali organi istituzionali (quale ad esempio la Corte dei Conti sul piano della loro incidenza economico-finanziaria). La dottrina italiana in genere è sempre stata orientata nel senso dell’insindacabilità degli interna corporis, soprattutto con riguardo del principio della separazione dei poteri. In questa prospettiva più volte si è espresso l’emerito Paolo Barile evidenziando che “se si da al giudice la possibilità di sindacare come ha funzionato all’interno il Parlamento, si mette il Parlamento in una posizione sostanzialmente subordinata rispetto al potere giudiziario”. In altri termini, si rischia di ledere il principio cardine del nostro ordinamento giuridico rappresentato appunto dalla separazione – e l’autonomia - dei poteri. A sostegno di questa posizione, ritroviamo alcune sentenze della Corte Costituzionale (n. 154/1985 e 379/1996 ndr) con le quali la stessa ha inteso sottolineare (la cd. giurisdizione domestica) come le Camere non possono essere riferibili ad una tutela giurisdizionale ordinaria. Restano comunque alcuni interrogativi. Chi vigila sull’operato dei soggetti operanti alle Camere? Chi controlla la legittimità dei procedimenti camerali da esplicarsi nel massimale rispetto del disposto normativo degli Statuti parlamentari? Se da un lato l’orientamento verso una sorta di tutela istituzionale degli atti procedurali parlamentari appare innegabile, dall’altro è altrettanto innegabile la necessità formale di un mero controllo degli stessi. L’approdo però dicotomico a cui sembrerebbe giungere questa argomentazione può essere ciononostante risolto attraverso una posizione di media res. Se infatti consideriamo il presupposto basilare dello status di rigidità della nostra Costituizione, ne suvviene quasi fisiologicamente che è la stessa carta costituzionale a determinare in esse norme per il funzionamento interno del Parlamento; norme che nemmeno il Parlamento naturalmente può ignorare poiché di rango gerarchico superiore rispetto alla legge ordinaria, di esplicazione parlamentare. Questa condicio basilaris determina di riflesso che “il sindacato sugli interna corporis del Parlamento può penetrare fino e soltanto al punto di accertare se sono state osservate le norme costituzionali che regolano il procedimento”, come evidenzia lo stesso P. Barile. Nel merito specifico del processo formativo delle leggi, nella sua accezione di controllo formale, è infatti giurisprudenza consolidata quella tendente ad assegnare alla Corte Costituzionale tale attribuzione. Centralizzando invero il discorso sugli interna corporis con riguardo all’esercizio della funzione legislativa, emerge chiaramente l’aspetto binomiale rappresentato dal dato formale e sostanziale della tematica. Se abbiamo visto, beninteso, che la Consulta ha un indiscusso compito – peraltro costituzionalmente legittimato – a controllare il rilievo formale dell’iter di legislazione, ci sono norme e consuetudini, cd. “sulla formazione della volontà dell’Assemblea” le quali, come tra l’altro testimonia la sentenza Corte Cost. n. 74/1984, non trapelano alcuna competenza esterna, essendo riservate, nell’ambito dell’autonomia costituzionalmente garantita, alla sostanziale competenza interna della Camere. Peraltro, funzionalmente al nostro discorso, e tralasciando in questa sede il tema della loro riconducibilità agli atti avente forza di legge, non bisogna comunque omettere la presenza disciplinante dei Regolamenti parlamentari. Se infatti la Corte costituzionale afferma chiaramente la propria competenza a controllare il rispetto dei regolamenti parlamentari nella formazione della legge, considera non suscettibili di controllo – quindi sindacato – i regolamenti stessi, escludendone di risulta anche qualsiasi sindacato esterno da parte di giudici o soggetti istituzionali, sui comportamenti dei parlamentari che trovino una loro completa disciplina e rispetto nei riguardi dei regolamenti delle Camere (Corte Cost. n. 379/1996). E in questa prospettiva l’aspetto della sindacabilità degli interna corporis, almeno nella loro accezione formale, sembra riscontrare la sua “chiusura del cerchio”. (N. Ruocco)
PMI, RISPARMIO SPESA ENERGETICA COME POTENZIALE ASSET ALLOCATION IN INVESTIMENTI OCCUPAZIONALI di N. Ruocco (07/08/2010)
In una recente intervista rilasciata al Tg1 Economia, il Presidente del C.N.A. (Confederazione Nazionale Artigianato e Piccola Media Impresa) dr. Ivan Malvasi ha affermato "La bolletta elettrica pagata dalle nostre imprese italiane nel 2009 è più salata di oltre il 30% rispetto a quelle degli altri paese europei, e costa circa 10 miliardi di euro l'anno. E' un autentico freno a mano per le nostre imprese". Una affermazione di rilievo ed eloquenza unica, che subito ha attirato la mia attenzione. Andando in effetti a prendere visione di alcune cifre, tra l'altro testimoniate da più di una ricerca, emerge con chiarezza come il costo energetico di una impresa italiana, voce a bilancio ancor più rilevante se ci riferiamo ad una piccola-media impresa, è di circa il 40% superiore rispetto a quello francese, più caro del 12% rispetto ai costi che sostengono le imprese tedesche, ed il 27% superiore di quello in Spagna. Uno studio di Confartigianato datato agosto 2007 (cifre quindi da rivedere leggermente in rialzo dato l'aumento sensibile dei consumi e dei costi) porta a rilievo che le imprese italiane ogni anno pagano in più per l'energia elettrica, rispetto alla media europea, ben 5 miliardi e 925 milioni di euro. Cifra che oggi sembrerebbe vicina agli 8 miliardi di euro. Mettendo da parte l'annosa discussione sul gap energetico dell'Italia rispetto alle altre nazioni europee, - problema quello delle politiche energetiche forse mai affrontato con obiettività in Italia - non possiamo, alla luce di queste cifre e soprattutto in una doverosa chiave di rilancio delle nostre imprese, non sposatare la nostra attenzione sull'opportunità quindi di abbattere sensibilmente questi costi, che ricordiamo, incidono non poco sulla competitività delle nostre imprese, e in modo particolare per le PMI. Proprio le PMI che sono l'autentico polmone dell'economia italiana. E' pacifico che l'unico modo per abbattere i costi di produzione legati all'energia elettrica è quello di investire in nuove e sempre più efficienti tecnologie di fonti energetiche rinnovabili, attraverso l'incentivazione verso politiche da parte delle imprese di investimento strutturale, operando a mio parere nella direzione di ciò che in finanza si definirebbe asset allocation. L'asset allocation è infatti quel processo decisionale fatto da un soggetto investitore teso a distribuire fondi preventivamente stabiliti (o risparmiati) in una o più attività, siano esse finanziarie o reali, e volto a raggiungere un obiettivo strategico o dinamico di medio termine. Rientrando sul piano concreto, da più parti è evidenziato come un concreto investimento delle imprese italiane nelle fonti energetiche rinnovabili, quali ad esempio nuovi strumenti per lo sfruttamento dell'energia solare ed eolica, magari a mio avviso opportunamente incentivate dallo Stato, o attraverso project financing con le amministrazioni locali, prevedendo l'obbligatorietà di un riutilizzo di utili in termini di occupazione, potenzialmente apporterebbero un risparmio complessivo nel breve-medio termine calcolato in circa 2 miliardi di euro nel costo dell'energia elettrica. Una cifra importante, la quale, una volta ammoritizzato il costo marginale per l'acquisto e installazione di queste nuove tecnologie, si presterebbe appunto come fonte di successivo reinvestimento proprio nello strategico ambito occupazionale. E questa prospettiva rappresenta una chiave di volta. Ma facciamo prima due calcoli. Un risparmio sul piano nazionale di circa 2miliardi di euro annuali per il costo dell'energia elettrica, naturalmente a seguito di opportuni e studiati investimenti nelle fonti energetiche alternative, investendoli interamente sul mercato del lavoro, equivarrebbero, prendendo ad esempio il caso di un operaio medio che annualmente costa per una impresa tra paga, oneri previdenziali e ritenute sui 25/30mila euro, a circa 80mila nuovi posti di lavoro! E considerando che le PMI operano quasi sempre in territori di piccole e medie dimensioni, nuovi posti occupazionali, anche se in poche unità, rappresenterebbero nuove fonti di indotto per le intere comunità locali. Non ultimo, un investimento di carattere strutturale sulle fonti energetiche rinnovabili, da un lato focalizzerebbe una opportunità verso una maggiore - e necessaria - tutela dell'ambiente, e da un lato, con le giuste politiche di marketing, lascerebbe intendere chiari slanci di immagine e di valorizzarione delle stesse imprese e dei loro prodotti. Insomma, un investimento che equivale a risparmio di utili, utili che reinvestiti nel mercato del lavoro apportano benefici occupazionali, occupazione che determina nuova competitività per le PMI e infine nuove fonti di reddito nelle comunità locali che a loro volta creano un lieve aumento del loro potere d'acquisto. E' comunque vero che ci sono per le imprese italiane diversi altri problemi ed esigenze, e quindi eventuali risparmi non dovrebbero essere necessariamente utilizzati per nuove assunzioni, ma in questo modo, soprattutto per le PMI, si attiverebbe come visto un circolo decisamente funzionale. Sperando possa concretizzarsi sull'orma magari di quanto sta già avvenendo nei paesi scandinavi. (N. Ruocco)
(Diritto Costituzionale) UN NUOVO RILIEVO ALLE PMI ATTRAVERSO LA MODIFICA DELL'ART. 41 COST. : SARA' BRACCIO DI FERRO TRA STATALISMO ORIGINARIO E LIBERALISMO D'IMPRESA? di N. Ruocco (10/06/2010)
"L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perchè l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali" In questi giorni il Ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha espresso la volontà, che sembrerebbe trovare opinione favorevole anche nell'Esecutivo, di una possibile modifica dell'art. 41 Cost. con l'obiettivo condiviso di elevare a rango costituzionale la valorizzazione in termini centralistici dell'impresa italiana; proposta che ha trovato subito un suo riscontro positivo sia da alcune forze politiche, sia da esponenti della stessa imprenditoria. Risaltare a livello istituzionale l'importanza sistemica dell'impresa nel nostro Stato, o meglio, delle PMI le quali rappresentano circa il 70% del nostro comparto imprenditoriale, appare di primo impatto e in generale scelta condivisibile, nonchè testimonianza concreta di un lieve rimodernamento fisiologico di cui brevi parti della Costituzione italiana sembrerebbero necessitare. Ad iniziare proprio dall'art. 41, il quale più di tutti sembra sentire ormai il "peso" degli anni. Ma prima di addentrarci nel dibattito, procediamo preventivamente in una attenta analisi allo stesso articolo. Da una attenta lettura del disposto di cui all'art. 41, si evince un carattere superficialmente ostativo verso l'iniziativa privata (II comma) ed una contestuale facoltà programmatica e di mero controllo (III comma) verso entrambe le attività (pubblica e privata, ndr.). Nel suo complesso, il disposto di quest'articolo costituzionale, se da un lato al primo comma lascia intendere una iniziativa oggettivamente libera ed in quanto tale tutelata dall'ordinamento giuridico, ai due comma successivi, quest'aspetto viene grandemente ridotto dando allo Stato un potere assai incisivo in termini di intervento nel campo della contrattazione e dell'impresa. Rispetto al tema degli interventi dello Stato nell'economia, prefigurando il cd. aspetto statalista, la stessa giurisprudenza costituzionale invero, è piuttosto indirizzata verso il senso di una prevalenza degli interessi pubblici su quelli privati, legittimando in praxis una sorta di liceità fattuale di molte forme di limiti, diretti o indiretti, all'iniziativa privata e il liberalismo d'impresa. Da contr'altare, occore evidenziare tuttavia che la Corte Costituzionale in diverse circostanze ha ribadito che i limiti all'iniziativa economica privata non debbono essere tali da rendere impossibile o estremamente difficile l'esercizio, e che gli interventi del legislatore "non possono condizionare le scelte imprenditoriali in grado così elevato ad indurre sostanzialmente la funzionalizzazione dell'attività economica, restringendone in rigidi confini lo spazio e l'oggetto delel stesse scelte organizzative". Riassumendo, se l'articolo nel suo disposto complessivo lascia tutt'oggi intendere una chiara volontà statalista dei padri costituenti, tutt'oggi appare innegabile una graduale consapevolezza di una sempre più necessaria apertura sistematicamente liberale verso le imprese. In questo scenario, preventivamente descritto, la proposta di una modifica costituzionale, che ricordiamo non deve essere fatta secondo la legge ordinaria, bensì attraverso un procedimento "rinforzato" di revisione come prescrive l'art. 138 Cost., determina in un dibattito socio-istituzionale un possibile braccio di ferro tra una volontà originariamente statalista e garantista, ed una moderna e fisiologica opportunità di liberalismo dell'iniziativa economica privata. Un braccio di ferro di non poco conto. Un aspetto quasi dicotomico che ciononostante, a mio avviso, può trovare riscontro nonchè soluzione immediata, se travasiamo il discorso sul piano concreto. Infatti resta pacifico che il liberalismo d'impresa si traduce nei fatti in semplificazione burocratica, possibili incentivi fiscali per le medesime realtà imprenditoriali, sia dal punto di vista dell'iniziativa, che della successiva gestione, potenziamento dei servizi logistico-strutturali. Soluzioni queste che certamente non possono essere previste se non con legge ordinaria (o decretazione) a fronte di obiettivi preventivamente programmati dall'Esecutivo. Intanto in quel di Confindustria si è evidenziato come "l'iniziativa del Governo per la libertà d'impresa che punta ad una drastica semplificazione delle norme per le Pmi, è di grande interesse e potrebbe essere motivo di forte aiuto per far ripartire la crescita". Discorso corretto, ma sarebbe ancora più corretto se questa aspettativa fosse fondata su reale progettualità in questa direzione. E ciò perchè in tutto questo discorso la modifica dell'articolo 41 detiene un valore esclusivamente dottrinale e di potenziale legittimazione istituzionale. Passaggio importante, ma non concretamente fondamentale. Le imprese italiane infatti hanno bisogno, e in tempi anche ragionevolmente rapidi, di concrete rifome strutturali tese ad incentivare la loro competitività sul mercato, mai così oggettivamente saturo e insidioso. Le riconoscenze o le leggittimazioni istituzionali del (giusto) valore all'impresa asservono nel breve termine, a mio modesto avviso, al solo dibattito politico, per giunta su quest'argomento sterile e poco consapevole. E' giusto, più che giusto modificare in termini di liberalismo l'art. 41, ma si facciano prima le dovute riforme. Non si può pensare di apportare cambiamenti di sviluppo e crescita se si da aprioristicamente rilievo ad un dato seppur importante ma formale anzichè ai dovuti cambiamenti normativi sostanziali. (N. Ruocco)
(Diritto Costituzionale) LA POTESTA' NORMATIVA DELLE REGIONI A STATUTO ORDINARIO. NUOVE DISCUSSIONI SULLA PROBLEMATICA DELLE COMPETENZE ESCLUSIVE E CONCORRENZIALI VERSO UNA TENDENZA SEMPRE PIU' SUSSIDIARIA, IN ATTESA DI UNA PIU' EVIDENTE STRUTTURA FEDERALISTICA di N. Ruocco (20/03/2010)
Siamo ormai a pochi giorni dalle elezioni regionali, elezioni mai così sentite, studiate, preparate, propagandate come queste per le quali ci accingiamo ad entrare nel vivo della campagna elettorale. Ma cosa c'è in "ballo"? Cosa rappresentano le Regioni nel nostro assetto istituzionale? Il tema è di grande interesse e, seppur presentando diverse sfaccettaure, ho deciso di affrontarlo cercando di essere quanto più sintetico possibile. Il nostro è un sistema autonomistico che affonda le sue radici nella Costituente del '48, la quale per l'appunto prevedette un sistema regionalistico accanto all'apparato dello Stato centrale, dopo decenni di forte tendenza accentratrice. Nell'assetto dello Stato italiano esistono infatti tre livelli di Enti territoriali (o locali): i Comuni, le Provincie e le Regioni; autonomie ampiamente riconosciute, legittimate e regolamentate dalla nostra carta costituzionale nel suo Titolo V. In tale quadro istituzionale viene frattanto disegnato un sistema autonomistico in cui la Regione ricopre chiaramente il ruolo di Ente territoriale dominante, con un'autonomia costituzionalmente garantita, e legittimata da un proprio territorio, popolazione e governo. Un'autonomia quella regionale che man mano è venuta ad accentuarsi, attuandosi ciò che ritengo, un vero processo regionalistico [...] In particolar modo a partire dagli anni '90, forse per la spinta evoluzionistica per l'entrata dell'Italia nell'UE (Trattati di Maastricht e Amsterdam), è stata avviata una incisiva rideterminazione delle relazioni tra i vari Enti territoriali, andando a modificare l'asseto in senso maggiormente autonomistico per le Regioni. Tale processo è culminato con le leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001 che hanno organicamente modificato in questa direzione la parte seconda del Titolo V della Costituzione. Ma di che tipo di autonomia godono le Regioni italiane? Occorre premettere, che nel nostro sistema istituzionale esistono due tipologie di Regioni: le Regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale (Valle d'Aosta, Trentino, Friuli, Sicilia e Sardegna). Tralasciando queste ultime magari a futura discussione (perchè c'è un tema di particolare fascino in dottrina riguardante la "costituzionalità del regionalismo differenziato"), evidenziamo che le Regioni a statuto ordinario, sono pervenute, in sintesi, ad una propria formale autonomia politica (art.115 Cost.), legislativa e regolamentare (art.117 Cost.), amministrativa (art.118 Cost.) e finanziaria (art.119 Cost.). Insomma un ampio spettro di potestà statutaria per la quale appare evidente come la stesso carattere interventistico di una Regione possa predisporre situazioni di trasversalità con la potestà legislativa dello Stato. Tuttavia sono venute in soccorso in sedes materiae le recenti modifiche del Titolo V. L'art.117 Cost. (interamente riformato dalla legge Cost. 3/2001) infatti elenca una serie di materie e discipline per le quali la competenza legislativa è esclusiva dello Stato (comma II); un secondo gruppo di materie e discipline di competenza concorrente Stato-Regioni (comma III) e infine delinea una competenza di carattere generale a favore delle Regioni (comma IV), secondo un criterio residuale, cioè per le materie e discipline non espressamente menzionate. In linea generale, le funzioni di una Regione si possono distinguere, provando a riassumere, in partecipazione ad atti dello Stato e in atti di competenza interna.
in completamento
(Diritto Costituzionale) L'ISTITUTO PARLAMENTARE DELLA FIDUCIA SULL'ATTO. FORZATURA PROCEDURALE DELL'AZIONE GOVERNATIVA O MERA PRATICA ANTI-OSTRUZIONISMO? di N. Ruocco
"Il Consiglio dei Ministri mi autorizza a porre la questione di fiducia sul presente atto in votazione senza modifiche di testo e aggiunta di articoli". E' questa la celeberrima frase, ormai di frequente uso alle Camere, che il Ministro per i Rapporti col Parlamento suole enunciare quando il Governo intende porre la questione di fiducia su di una legge in discussione nell'aula. L'istituto della fiducia viene previsto e disciplinato dall'art.160 del Regolamento del Senato, e dall'art.116 del Regolamento della Camera dei Deputati nei suoi limiti di applicazione, e introdotto nel lontano 1971 al fine di combattere il problema dei "franchi tiratori" nelle turnate di votazione di un testo di legge alle Camere. Dal 1980, grazie alla priorità delle votazioni su cui è posta, questa "pratica" parlamentare si rivolge anche all'esigenza condivisa di combattere l'ostruzionismo dell'opposizione che sovente si manifesta con un alto numero di emendamenti presentati durante l'iter di approvazione assembleare di un testo di legge; esigenza questa di non poco conto. Il dubbio che tuttavia emerge è quello di un potenziale utilizzo improprio di questo strumento per approvare leggi come si suol dire a "colpi di maggioranza" senza discutere nei meriti e nelle peculiarità pur numerose che sovente necessitano per talune materie su cui, o per programmaticità politica o per necessità sociale, si è chiamati a legiferare. Il Governo infatti, nel momento in cui pone la fiducia, fa decadere le discussioni con successive singole votazioni per ogni emendamento parlamentare tozzando forse con una delle funzioni cardine del Parlmento, cioè il dibattito. Sotto quest'aspetto pertanto un minimo di forzatura procedurale è chiaramente riscontrabile. Da contr'altare invece, occorre dire che molto spesso, soprattutto nelle discussioni parlamentari di leggi sulla programmazione economica, o su temi di giustizia oppure di iniziative fiscali, l'opposizione pone in essere un elevato numero di emendamenti (a volte arrivati anche a duemila!) che a nulla servono se non a rallentare e ostacolare l'approvazione della legge. E se consideriamo che il nostro sistema costituzionale prevede la doppia approvazione di una legge da parte di entrambe le Camere, va da se che spesse volte ciò porta ad uno stallo dello stesso procedimento di legiferazione [...] La chiave di volta dell'istituto della fiducia è rappresentanta da un suo equo utilizzo. In primo luogo perchè porre la fiducia su di un testo, sul piano dottrinale, equivale a mettere in gioco su di una argomentazione la fiducia originaria posta alla base del rapporto Governo-Parlamento, fiducia ricordiamo concessa per votazione nella fase iniziale di insediamento dell'esecutivo. In secondo luogo, occore portare all'attenzione che per sua definizione la fiducia deve avere un carattere di specificità ed unicità. Sul piano formale e della gerarchia delle fonti, essa inoltre non è disciplinata da una legge bensì da un articolo di un regolamento parlamentare, equiparabile alla legge ordinaria si, ma con talune prescrizioni. Pertanto occorre del buon senso da parte dell'esecutivo, al di là di qualsiasi appartenenza poltica, poichè l'utilizzo di questo strumento deve collimare quanto più possibile con la fisiologica esplicazione di una legge, che necessita sempre di un dialogo tra le parti, ma per nessuna ragione di un ostruzionismo di blocco. (N. Ruocco)
(Finanza e Mercati) MKT MANAGEMENT AVANZATO B2B E IL RATING ADVISOR: NUOVI ORIZZONTI DI MISSION SOCIETARIA di N. Ruocco
Il marketing (tecnicamente conosciuto con l'abbreviazione MKT) ormai è un elemento di strutturale importanza nel mercato globale e nella programmazione commerciale del 21imo secolo. Essendo tuttavia di vasto impiego e applicazione, in quanto insieme di molteplici fattori, strumenti e tendenze di indirizzo, esso ha assunto diverse specificità con vari influence's levels (livelli di influenza) per le società a cui esso viene impiegato [...] In linea generale, un'azienda che determina in essa politiche di marketing gestionale, sarà teoricamente strutturata come mostra lo schema in basso.
Notiamo che il marketing in senso generale occupa settori ben specifici all'interno di un'azienda che fa dello stesso un'insieme di strumenti di sfocio nella giusta allocazione del prodotto finito, mediante pianificazioni strategiche. Ciò premesso, discutere tuttavia di marketing in termini specifici è cosa quasi sempre difficoltosa, poichè come detto la peculiarità e la diversità di tale argomentazione è notevole, come sono notevoli i "point of wiev" di essa, laddove interpretiamo il marketing in senso meramente economico, oppure in senso sociale, oppure sul piano manageriale, oppure in termini di comunicazione. Tralasciando la dovuta antefazione, invito a porre l'attenzione su nuovi orizzonti futuri del mkt avanzato in termini di crescite societarie: un marketing che si allontana dal suo targeting iniziale di b2c (business to consumer) inquadrandosi nel nuovo e più diversificato planning del b2b "business to business", il quale ha per oggetto gli scambi di beni e servizi che intervengono tra organizzazioni e società, e pertanto ciò che lo caratterizza è il fatto che gli acquirenti, che possono essere costituiti da imprese, enti pubblici o società senza fini di lucro, utilizzano i beni e servizi acquistati per produrre altri beni e servizi da trasferire a terzi, venendo a costituire tutto ciò che rappresenta l'universo di servizi, attività, compravendite. Va da se che la società che attiva strategicamente in essa politiche migliori e più funzionali di mkt b2b trae di conseguenza migliori risultati gestionali [...] E' questo uno dei punti cardine delle società moderne che intendono guardare avanti per ottimizzare la loro attività. Ciò detto, occorrerebbe accennare a questo punto il tema del marketing mix, vale a dire la combinazione (mix) di variabili controllabili (dette anche leve decisionali) di marketing che le imprese impiegano per raggiungere i propri obiettivi. Per motivi di opportunità, ho convenzionalmente tradotto l'insieme generale delle variabili nel seguente schema in basso.
Dallo schema è possibile notare le famore 4P del marketing mix: Product(Prodotto) Price (Prezzo) Place (Distribuzione) Promotion (Comunicazione). Ottimizzare tuttavia i risultati vuol dire anche ridurrre i rischi che il mercato sempre più spesso offre, rischi derivanti dalle stesse variabili di cui sopra. Ed ecco che, a mio avviso, emerge una nuovissima frontiera del marketing: il marketing di rating o marketing advisor. Il mkt advisor è il livello di specificità più avanzato del marketing, tendente per l'appunto a migliorare l'efficienza di un'azienda che lo mette in pratica riducendo i rischi e le avversità di mercato. Questo può avvenire con specificità settoriali sia di trading solutions che di rating risk. Molto spesso, a tal proposito, si sente parlare di società advisor, soprattutto nel settore meramente economico (banche, istituti di credito, acquisizioni borsistiche) cioè un settore di mercato nel quale vi è spesso come oggetto il credito, per il quale i rischi sono mediamente tra i più alti. A questo punto, parere dello scrivente, tutte le aziende e società di medio-alto profilo che intendono affacciarsi verso una modernità ed efficienza gestionale non posso far a meno di queste due peculiarità: il b2b e l'advisor, due realtà la prima, che migliora in termini di efficienza i rapporti tra i vari enti di business, la seconda, peculiarità tecnica che tende a limitare i rischi di mercato. Sono diverse le società multinazionali che al loro stesso interno hanno costituito sub-società di advisor (per esempio tutte le banche ne hanno) e di marketing di tipo b2b. Anzi, provocatoriamente direi che un buon imprenditore lungimirante potrebbe fare ottime fortune investendo su questi nuovissimi scenari in termini di consulenza integrativa delle aziende [...] La chiave di volta è rapprensetata dalla mission societaria che ci si pone: prevedere una mission, cioè lo scopo ultimo dell'azienda, la giustificazione stessa della sua esistenza, e al tempo stesso ciò che la contraddistingue da tutte le altre, che prevede a monte tali peculiarità, potrà essere sicuramente la carta vincente delle società future. (N. Ruocco)
(Diritto) LA DECRETAZIONE D'URGENZA DELL'ART. 77 COST. TRA ESCLUSIVITA' DELLA FUNZIONE LEGISLATIVA E LIMITI DOTTRINALI DI LEGITTIMITA'. NUOVE TEORIE di N. Ruocco
"Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni."
Così recita testualmente l'articolo 77 della Costituzione Italiana ai primi due commi, in assoluto una delle norme costituzionali più discusse in dottrina e nelle manualistiche di diritto costituzionale; la più discussa perchè riguarda un istituto di grossa attualità e applicazione: il decreto legge del Governo.
Il decreto legge è un istituto di rilievo costituzionale che delinea un atto avente forza di legge posto in essere dal Governo, nei casi in cui, a carattere straordinario, vi è la necessità di un intervento normativo nel disciplinare, delineare, attuare o derogare una o più fattispecie e discipline. Come detto, data ormai la frequenza di tale istututo nei governi cd. di "seconda repubblica", si sente molto spesso parlare nei telegiornali e sui quotidiani dell'emanazione di un decreto legge, soprattutto in misure di carattere fiscale (l'attuale "scudo fiscale" è nato come decreto legge) o per prorogare discipline temporanee in via di scadenza. Quasi come fosse tendenzialmente diventato di normale prassi nel contesto della regolamentazione governativa; e scavalcando di gran lunga l'istituto (di maggiore legittimità sotto il profilo del principio della separazione dei poteri) del decreto legislativo. E' pacifico che numerosi sono gli aspetti di carattere istituzionale-procedurale e di riflessione dottrinaria che pervengono da una attenta analisi di tale atto normativo, argomento sul quale hanno discusso e scritto i migliori costituzionalisti italiani. L'aspetto tuttavia su cui poniamo ora la nostra attenzione è rappresentato dal concetto di legittimità-iniziativa a priori e legittimità-validità a posteriori del decreto legge (nuova teoria in questa prospettiva formalizzata per la prima volta dallo scrivente). Sono due infatti le peculiarità dominanti di tale provvedimento governativo. La prima è costituita dal momento nel quale il Governo, preso atto della necessità ed urgenza di intervenire in un determinato ambito, derogando al principio cardine del nostro assetto costituzionale (separazione dei poteri) assume l'iniziativa di porre in essere l'atto avente forza di legge, pur non avendo apposita delegazione dalle Camere. In questa prima fase l'ambito di legittimazione dell'atto normativo trae origine proprio dal principio di necessità ed urgenza, tema questo alquanto ambicuo in termini di modalità, perdurata, ambito di applicazione e retroattività [...] Tralasciando l'ambito puramente tecnico dell'argomento, evidenziamo a tal proposito, come il concetto di necessità ed urgenza possa apparire di notevole vastità dal punto di vista amministrativo-applicativo e pertanto si sottolinea in dottrina - e condivido appieno - come questo rappresenti una sorta di leva interpretativa a favore dell'azione governativa in termini di legiferazione. Ora il punto è: può questo rappresentare una forma di indirizzo dell'azione politica del Governo? O meglio, possa essere utilizzato questo strumento, nato da un carattere di interventismo normativo tipico del dopoguerra, come forma attuativa degli obiettivi programmatici dell'esecutivo anche nei settori normativi coperti dalla riserva di legge? Invero qualcheduno ha posto in risalto una ulteriore "forzatura" rappresentata dal decreto legge al quale il Governo in sede di conversione in legge ordinaria entro i 60 giorni successivi pone la fiducia alle Camere, per evitare l'emendabilità del testo, ma questo è un altro ambito tecnico (dove si evincono dei "paletti" dalla lg. 400/1988) che evitiamo. E' comunque opinione diffusa in dottrina costituzionale sul concetto di iniziativa (Santi Romano, Tesauro, Crisafulli) che, capovolgendo la problematica in senso positivistico, la ricorrenza stessa del presupposto di necessità ed urgenza rappresenta da un lato la giustificazione iniziale del decreto legge stesso, dall'altro un limite sostanziale verso la sua adozione, sottolineando come la stessa Corte Costituzionale (sent. n. 29/1995) abbia il potere di risulta del mero controllo sull'esistenza di suddetti presupposti. Sembra dunque che la problematica sia formalmente risolta; tuttavia ci sono ancora numerosi interrogativi che meritano attenzione. Se infatti il piano della legittimazione a priori dell'atto sembra aver trovato i suoi fondamenti e limiti, permangono delle problematiche di legittimazione a posteriori in termini di validità formale dell'atto. In quest'ottica invero esiste un ulteriore limite sostaziale rappresentato dalla soggezione del Governo al controllo politico del Parlamento in sede di conversione del decreto legge, che ricordiamo deve avvenire (III comma art. 77 Cost.) entro 60 giorni dalla data della sua pubblicazione. La conversione dell'atto governativo, che secondo il disposto della legge 400/1988 verrà poi esplicato sotto forma di D.P.R., rappresenta una sorta di sanatoria nei confronti dell'atto che è sfociato ponendo una deroga costituzionale alla competenza legislativa esclusiva delle Camere. E la legittimità del decreto legge ha luogo appunto in questo momento [...] Altra problematica evidenziata in dottrina è quella dell'iterazione o reiterazione. Sempre in sede di conversione del decreto, infatti può succedere che possano essere reiterati (cioè ripresentati) dal Governo decreti legge precedentemente non convertiti, per diverse ragioni o più specificamente, per il perdurare dello status di necessità ed urgenza. Ora, sono in molti a chiedere il piano della legittimità della reiterazione. Personalmente, propendo per il dato interpretativo promosso dalla Corte Costituzionale con la sent. n. 360/1996, con la quale ha sottolineato il contrasto del fenomeno della reiterazione dei decreti legge con la previsione costituzionale della loro provvisorietà. E' questo infatti, a mio avviso, un principio sostanziale del decreto legge. Tralasciando diversi altri ambiti di discussione (effetti reiterativi, posizione gerarchica tra le fonti del diritto, decreto legge parzialmente convertito, effetti di una sua mancata conversione, ecc.), evidenzio per concludere, come la chiave di volta di questo atto normativo del Governo di grandissimo rilievo deve essere dunque proprio il suo aspetto intrinseco della provvisorietà, caso contrario (e purtroppo vi è la tendenza verso questa direzione) il Governo pone un vero "strappo" costituzionale sull'esercizio della funzione legislativa nello Stato Italiano. (N. Ruocco)